Il breve tragitto che separava casa mia dai Portici, 3-400 metri in tutto, aveva per me il sapore della libertà. Libertà dalla famiglia, libertà dalle incombenze scolastiche e libertà dal ruolo di figlia, di bambina ancora da proteggere e tenere d’occhio.
Lì, sotto i Portici, mi sentivo grande, indipendente, alla pari con tutti gli altri, con la fiumana di ragazzi e ragazze che ogni sera , e ogni giorno alla fine delle lezioni, vi si riversavano.
Insomma, quel breve tratto di “strada”, con negozi, bar e anche una chiesetta, era in realtà una scuola di vita. Lì ho (intra)visto i miei primi amorazzi, lì si sono infranti i miei sogni romantici da due cuori ed una capanna, lì ho pianto per il mio povero cuore da sedicenne spezzato e anche per un brutto voto a scuola.
Lì confabulavo con le amiche se “quello là” tanto carino non fosse un filino troppo grande per me!
I Portici, quindi, come viaggio iniziatico, di formazione: si entrava ragazzini e se ne usciva adulti. Si arrivava timidi ed insicuri, alla ricerca di una colonna a cui associarsi. Ogni colonna aveva il suo nome preso in prestito dal vicolo attiguo o dal negozio più vicino. E ad ogni colonna corrispondeva una “compagnia” di ragazzi con caratteristiche ben precise. Per tipologia di scuola, ambito sociale e/o politico ed età. Di solito ci si accodava a qualcuno che, benevolo, permetteva al nuovo arrivato di entrare nella compagnia. Una specie di presentazione ufficiale, come nei circoli più esclusivi. Poi, pian piano, da pulcini spaventati si guadagnava in sicurezza ed autorevolezza, all’interno di una invisibile, ma disciplinata “scala sociale” interna ad ogni compagnia. E con il passare degli anni, se si aveva la voglia e la costanza di rimanere sempre lì, si arrivava ad essere il punto di riferimento della colonna o del vicolo. Magari conosciuti e riconosciuti in tutta la “vasca” dei Portici. Insomma, si diventava una piccola celebrity!
Chiaramente alla sottoscritta non è mai accaduto! Io facevo parte della maggioranza silenziosa, quella che era contenta di stare lì, ma non aspirava alla celebrità. Anzi, più era invisibile e meglio stava!
Poi, ad un certo punto della tua storia, i Portici ti “sputavano” fuori: perchè a quel punto eri pronto per affrontare la vita, quella vera, senza che loro stessero lì a proteggerti, con il loro abbraccio rassicurante, perchè avevano esaurito il loro compito e, come una mamma benevola, ti accompagnavano con delicatezza verso l’età adulta che ti attendeva aldilà del Corso.
Quel Corso che ora è lì, immobilizzato dalle transenne e imbracato dai puntellamenti. Con le vie laterali chiuse ed inaccessibili. Con i militari che gentilmente ma con fermezza lo presidiano e i cittadini che ostinatamente tornano lì, in mezzo al nulla, per fare le loro passeggiate fino a Piazza Duomo, dove c’è, ancora ferita, la Chiesa delle Anime Sante, emblema del terremoto. Ma proprio dai Portici si può percepire che gli aquilani non si sono arresi ed ancora sono lì, in attesa di riappropriarsi della città, quando sarà loro permesso. Lo si vede dalle chiavi delle case, che i cittadini del centro storico hanno appesa più di un anno fa, proprio sotto i Portici, e che toglieranno quando potranno tornare nelle loro abitazioni, ora inaccessibili o, in alcuni casi, da abbattere. Lo si vede dalle pezze colorate messe un po’ dappertutto proprio lì, grazie all’iniziativa Mettiamoci una Pezza, per ridare colore e vita alla città dell’Aquila. Iniziativa che ha riscosso un notevole successo, con 4000 pezze pervenute da tutto il mondo. Nel III anniversario del terremoto, questi piccoli capolavori fatti a maglia hanno decorato i Portici, la Piazza del Duomo ed altri luoghi simbolo di quella che fu la città pre-sisma.
Un modo di riprendersi il centro, anche solo per una giorno, anche solo simbolicamente.
pubblicato il 10 aprile 2012 su La Eco